I più vicini al panorama musicale italiano si saranno accorti che il titolo di questo pezzo è liberamente ispirato a uno dei brani protagonisti dell’ultima edizione del Festival di Sanremo e, mentre scrivo questa frase, vedo già la nostra editor Madame Red scrivermi per chiedermi dove esattamente e con quale intensità io abbia sbattuto la testa. Ma tranquilli, non sono qui a scrivervi della kermesse ligure, bensì della mia recente esperienza in Giappone, perché spero possa essere spunto di riflessione per chiunque voglia intraprendere un percorso simile.
Il mio anno di studio a Kyōto nasce non solo dall’accademica volontà di migliorare la mia conoscenza della lingua giapponese o da quella di mettere finalmente piede nel paese di cui tanto ho subito il fascino negli anni della mia formazione, ma piuttosto dalla necessità di sconfiggere alcuni dei mostri tra i più minacciosi per me in quel periodo: il mostro dell’immutabilità e quello dell’inappartenenza. Sentivo dentro di me il bisogno di fare il Giappone mio, volevo dimostrarmi non solo che i confini dello Stivale sono ben valicabili, ma anche che avrei raggiunto, finalmente, il mio punto di arrivo. Ma il Giappone si è rivelato, al contrario, un punto di partenza.
Non fraintendete, l’esperienza in Giappone è stata magnifica e irripetibile e, senz’altro, mi ha aiutato ad apprezzare lati del Sol Levante che ingenuamente ignoravo, quanto a rivalutarne altri che altrettanto ingenuamente idolatravo. È un’esperienza che consiglierei a chiunque, nipponisti o meno. D’altronde per un anno Kyōto è stata per me una casa accogliente, un’amica cara e una nonna amorevole. E se Kyōto è stata una nonna amorevole, Tōkyō e Ōsaka sono state le zie single e gnocche che mi portavano a bere di nascosto da i grandi.
Il Giappone è, per confermare qualche stereotipo, il paese dove la burocrazia procede senza intoppi, dove i mezzi pubblici spaccano il secondo, dove la gentilezza è nauseabonda, dove i gadget Pokémon straripano dagli scaffali. È un paese magico, fatto di scenari tanto incantevoli quanto caduchi, che raramente si avrà la possibilità di ammirare nella propria vita.
La voglia di ripartire si nascondeva nella quotidianità, nella spesa, nell’interazione sociale. Era nel side-eye, che nonostante nascesse più dalla sorpresa che dalla paura, rimaneva pur sempre un side-eye. Non che i giapponesi siano un popolo di razzisti, affatto. Hanno soltanto il viziaccio di fare fin troppo per mettere gli ospiti a proprio agio, generando spesso la reazione contraria. Ma non li biasimo, d’altronde anch’io ogni volta che ho qualcuno a casa per cena faccio lo stesso errore, insistendo per rimpinzarli di stuzzichini, snack, bevande e quant’altro.
Qualche paragrafo fa parlavo di parentele figurate con le città. Se in Giappone ho trovato nonna e zie pronte ad accogliermi e a versarmi litri di umeshū, sentivo la mancanza di una madre. Quindi ho capito: la mamma è l’Italia. È sempre stata l’Italia. La mamma è colei che ti svezza, che ti insegna a parlare e a camminare, che ti vede crescere al di là del suo controllo quando si fanno le valige e si va via. Che però poi ci manca e quindi torniamo, ma ormai grandi e riluttanti alla vita da cameretta partiamo di nuovo.
Per questo nessun posto è casa mia. Kyōto è un dipinto, Tōkyō è un parco giochi, Firenze è consuetudine, Bologna è ricordo e nostalgia. Abitare in Giappone è bellissimo, è un nuovo svezzamento alla vita, un’esperienza che apre nuove prospettive e che avvicina l’inavvicinabile. Ma abitare in Italia è altrettanto bello, è tornare alle radici, alle tradizioni, è sentirsi padroni dei costumi ed è la sicurezza di un sorriso familiare. Nessun posto è casa mia, perché a modo loro lo sono un po’ tutti.