3 ottobre 2013 – 5 gennaio 2014
British Museum, Londra
Punto di arrivo di una ricerca durata tre anni, Shunga: Sex and Pleasure in Japanese Art è una mostra temporanea realizzata dal British Museum in collaborazione con Shunga in Japan LLP e School of Oriental and African Studies (SOAS). L’elegante allestimento nella galleria all’ultimo piano del museo londinese presenta una selezione di 170 stampe erotiche appartenenti al genere delle “immagini primaverili” (shunga).
È un fatto molto comune che i grandi musei come il British Museum espongano nelle loro gallerie oggetti che originariamente non erano stati creati con l’intento di essere messi in mostra. Utensili di uso comune possono, talvolta, assumere una particolare valenza dal punto di vista storico ed etnografico, o essere apprezzati per le loro qualità estetiche e quindi rivalutati come vere e proprie opere d’arte. Le stampe esposte in Shunga: Sex and Pleasure in Japanese Art hanno subito un processo analogo, ovvero un capovolgimento del carattere privato che le opere avevano in origine, attuato attraverso l’articolata mostra all’interno di quello che è uno dei più visitati musei pubblici del mondo. Cinque grandi sale ospitano una moltitudine di stampe e disegni, tra i quali colpisce in particolare l’area dedicata ai grandi maestri: Kitagawa Utamaro (figura 1), Katsushika Hokusai (figura 2), Utagawa Kuniyoshi, Utagawa Kunisada, e molti altri artisti di ukiyoe che, nel corso della loro carriera, hanno portato avanti anche una raffinatissima produzione di shunga.
Ciò che si intende con il termine shunga è un genere di immagini, in voga in Giappone a partire dallametà del diciottesimo secolo, che presentano tutte come tema centrale la rappresentazione dell’incontro erotico tra amanti. Stampe, disegni e dipinti venivano solitamente pubblicati nel formato del libro o del rotolo orizzontale, ed erano fruite per svariate motivazioni: per autoerotismo, come guida per le future prestazioni – spesso, con questo intento, anche alle donne venivano mostrati alcuni shunga – o per diletto. Molte rappresentazioni erano volutamente comiche, come ad esempio quella realizzata da Suzuki Harunobu che ritrae una scena di gelosia in cui una donna sta per lanciare una palla di neve all’interno della casa dove il marito è impegnato con un’altra giovane ragazza (figura 3); e, con lo stesso intento umoristico, non mancano le parodie in versione spiccatamente erotica di opere letterarie famose, una fra tutte la scena dipinta da Utagawa Kunisada nel 1837 come parodia del Genji Monogatari, anch’essa presente in mostra.
Shunga: sex and pleasure in Japanese art si propone anche di chiarire come il genere si sia evoluto nei secoli, di pari passo con lo sviluppo di Yoshiwara (il quartiere di piacere di Edo, l’attuale Tokyo). La mostra evidenzia il modo in cui il gusto estetico è progressivamente cambiato, mostrando sempre posizioni più contorte dei soggetti rappresentati, o ingigantendo sempre più gli attributi sessuali di entrambe le parti. L’allestimento e la divisione delle stanze e dei periodi storici getta una luce anche sulle vicissitudini dello shunga nel corso degli anni; il genere è infatti stato più volte bandito per mezzo di varie riforme, come ad esempio le Kyōhō nel 1722, che vietavano qualsiasi pubblicazione dal contenuto erotico, le Kansei nel 1790 o, ancora, le Tenpō nel 1841-43. Certo è che, nonostante lo shunga fosse stato dichiarato ufficialmente illegale all’inizio del diciottesimo secolo, nulla è in realtà riuscito a fermare la prolifica produzione di immagini amorose, che hanno continuato a circolare ampiamente all’interno del paese. Gli artisti, dal canto loro, pur di non rinunciare a questo filone spesso si nascondevano dietro uno pseudonimo, in modo da non incorrere in eventuali problemi con la legge.
Occorre specificare inoltre che il veto imposto sul genere non era motivato dal contenuto esplicitamente erotico delle immagini, ma piuttosto dal fatto che alcune di queste coinvolgevano importanti uomini di stato o esponenti di alte classi sociali, mostrandoli durante il loro affaire. Celebre è il caso del 1804 di cui fu protagonista Kitagawa Utamaro, il quale mostrò Toyotomi Hideyoshi con le sue concubine, nominandolo esplicitamente – di solito si usavano nomi finti per i personaggi pubblici, anche se molti erano comunque facilmente riconoscibili – e offendendone la memoria. A causa di queste opere, Utamaro fu incarcerato e la sua carriera artistica non riuscì più a risollevarsi dopo tale periodo.
Lo shunga è stato inoltre completamente bandito in Giappone nel corso del XX secolo, arrivando poi, al contrario, ad attraversare una fase di vero e proprio revival a fine anni Ottanta, quando gli obblighi di censura che precedentemente gravavano sugli editori si attenuarono.
La mostra al British Museum è stata suddivisa in cinque aree: Early shunga, Masterpieces of Shunga, Was shunga legal?, Who used shunga and how? e Shunga and the modern world. Tale divisione risulta forse un po’ rigida, ma allo stesso tempo piuttosto intuitiva per il grande pubblico. Dopo il suo ingresso nella galleria, il visitatore si trova davanti a una grande didascalia che ha il compito di introdurre il tema dell’esibizione, fornendo una spiegazione generale sullo shunga, forse l’unico dettaglio negativo dell’allestimento.
Come spesso accade in questi casi, infatti, la necessità di chiarezza per i non esperti del genere porta alla stesura di definizioni semplificate all’interno dei testi in mostra e, a volte, al ricorso a luoghi comuni; è ciò che succede in questa prima didascalia, dove si leggono le parole: It [lo Shunga] challenges us to reconsider the mutually exclusive categories of ‘art’ versus ‘pornography’ that evolved in the West.
Vi si nota innanzitutto il comune errore di utilizzare la categoria di ‘Occidente’ – idealmente gli Europei – e di interpretarla come diametralmente opposta a quella di un ‘Oriente’ concepito come luogo inconoscibile e misterioso, lontano sia geograficamente che culturalmente. In generale è preferibile non usare una simile terminologia, in quanto essa divulga uno stereotipo radicato in quell’antiquata prospettiva che vede ancora l’Europa come il centro del mondo, per cui le direzioni di Est e Ovest sarebbero ricavate partendo da tale punto di riferimento. L’uso di queste etichette, in aggiunta, non tiene conto delle differenze tra le varie culture o nazioni che vi vengono fatte rientrare; al contrario, invece, considera ad esempio tutti gli stati asiatici come parte di un unico ‘Oriente’, come se si trattasse di un solo, univoco paese.
La didascalia presenta anche un altro punto controverso: la generalizzazione riguardo alle categorie di ‘arte’ e ‘pornografia’, che sarebbero separate nell’arte europea, contrapposte allo shunga che, al contrario, ne costituirebbe la sintesi perfetta. La frase però è elusiva, vaga. Certo, l’immagine del rapporto sessuale non è un soggetto ricorrente nell’arte europea; ma di fatto non si può non notare una forte componente erotica in essa, dalla classicità fino alla scena contemporanea. E come dimenticare, ad esempio, la polemica femminista avvenuta negli anni Ottanta, la quale, schieratasi più volte contro la miriade di ritratti di nudi femminili all’interno dei musei, ha sottolineato l’intento voyeuristico maschile alla base di tutta l’arte euro-americana, che valuta il corpo della donna come niente di più di un semplice oggetto sessuale?
Alla luce di queste considerazioni, affermare che l’arte ‘in Occidente’ ha sempre separato le due categorie di eros e arte vera e propria può risultare un’inesattezza o, almeno, un concetto che richiede un chiarimento più ampio. Ciò che viene veicolato attraverso la didascalia introduttiva rafforza, al contrario, l’idea che ci sia una netta separazione tra ciò che ha sempre mosso la produzione artistica giapponese, in opposizione all’arte a noi più familiare. Non sarebbe forse meglio, invece, cercare di instaurare maggiori connessioni tra le due culture? L’ambiente museale, trattandosi in particolare di un’istituzione importante come il British Museum, potrebbe essere un ottimo luogo per perseguire questo obiettivo, considerando soprattutto la grande quantità di visitatori che vi si recano quotidianamente e, allo stesso tempo, la visibilità a cui una mostra come Shunga: sex and pleasure in Japanese art è stata esposta.