L’incontro con Takashi Murakami avvenne a Venezia nel 2010, in occasione dell’ esposizione a Palazzo Grassi. L’ intervista mi venne commissionata da un famoso mensile italiano che però poi, come succede talvolta, non la pubblicò mai. La propongo qui leggermente modificata rispetto alla stesura originale.
È stato definito l’Andy Warhol giapponese, ma a 48 anni Takashi Murakami, genio indiscusso del panorama artistico internazionale, potrebbe fare a meno di paragoni. Le sue opere sono state esposte nei musei più importanti di tutto il mondo – Los Angeles, Bilbao, Parigi, Francoforte tanto per citarne alcuni – e nel 2008 Time Magazine l’ha inserito nella lista delle 100 persone più influenti del pianeta. Perché Takashi Murakami non è solo un artista. È un’icona del nostro tempo. Un intellettuale di prima grandezza, creatore di una teoria artistica originale, il Superflat, attraverso la quale legge la realtà disegnando mostriciattoli dai mille occhi, fantastici funghi rosa dai denti aguzzi oppure creando gigantesche sculture di teen-agers umanoidi che spruzzano latte da seni enormi per scagliarsi contro convenzioni e tabù.
Capelli lunghi raccolti sulla testa come un samurai d’altri tempi, occhiali tondi, pizzetto, quando lo incontro Murakami è proprio come appare nelle foto. È disponibile, ma il tono della voce è molto deciso: intorno a lui nulla è lasciato al caso. Non è dunque difficile capire il perché della fama che lo circonda negli ambienti artistici di Tokyo, dove è conosciuto anche per il suo carattere kibishii, severo, difficile. Le sue assistenti, un pugno di signorine sexy, sono pronte a scattare a ogni minimo ordine. Queste eteree ninfette che ci svolazzano attorno sono la cornice ideale – e forse l’unica possibile – per l’autore di Miss Ko2. Sorridono, ringraziano: domoarigatō, thank you, merci. Non parlano italiano mais… bien sûr, français. D’altra parte la Francia ha da sempre un ruolo di primo piano nella carriera di questo artista. Fino al 12 dicembre Versailles ospita una sua grande retrospettiva ma nel 2002 fu proprio la collezione di borse disegnata per Luis Vuitton a rendere Murakami popolare in tutto il mondo. Nel 2007 poi, fu Pinault a salvarlo dalla bancarotta commissionandogli l’imponente opera oggi esposta a Palazzo Grassi, 727-272, un complesso affresco popolato da una processione di singolari personaggi, dal vecchio saggio ispirato al leggendario imperatore cinese Shennong, a Mr. Dob, l’alter ego di Murakami nel mondo flat. “In quel periodo il mio studio era in difficoltà. Sono riuscito a riprendermi grazie a questo progetto, sul quale ho letteralmente puntato la mia esistenza. Quando Mr. Pinault mi chiese di realizzare un’opera dai volumi notevoli gli risposi blandamente di sì. Ma poi ho impiegato tre anni per completarla. In questo lavoro si trovano spunti che riguardano le tecniche artistiche giapponesi. Spunti che ho ricevuto leggendo il libro del professor Tsuji che si trova qui accanto a me”. Murakami ci tiene a presentare l’anziano professore. Verso di lui ha un atteggiamento protettivo e di grande rispetto, quello molto giapponese del kohai (la matricola) verso il sempai (il senior) che però non ci si aspetta da una star come lui. Incontrare Takashi Murakami insieme a Nobuo Tsuji, rettore dell’università Tama di Tokyo e direttore del Miho Museum della Prefettura di Shiga, è una fortuna inaspettata e una rivelazione preziosa. Sta proprio nell’incontro tra questi due intellettuali la chiave di volta di un pezzo di storia dell’arte contemporanea, giapponese e non. Nobuo Tsuji è, infatti, l’autore di un testo fondamentale, una genealogia del fantastico senza la quale Murakami non avrebbe probabilmente mai sviluppato la sua teoria artistica. “Quando studiavo all’Accademia i manga e l’arte erano considerate due cose distinte. Fu proprio grazie a un libro scritto dal Prof. Tsuji che questa idea è cambiata, perché il manga veniva presentato come una possibile forma d’arte. Questa intuizione mi ha dato la possibilità di creare una teoria che riuscisse a fondere il mondo dell’ arte e quello del manga”. “Una delle caratteristiche della nostra arte tradizionale è la bidimensionalità. Una peculiarità che, se paragonata con l’arte occidentale, è sempre stata considerata un punto debole. Per lungo tempo noi giapponesi abbiamo avuto l’impressione di stare sbagliando qualcosa, come quando ci accusavano di avere il naso troppo piccolo. È stato Murakami a rivoluzionare questa idea, ad affermare che non c’era niente di male ad avere il naso piccolo o le immagini piatte. Murakami ha utilizzato questo elemento della nostra arte tradizionale per creare la propria forma espressiva” spiega il Professore Tsuji.
La volontà di esprimere un’identità culturale indipendente, accettata a ogni latitudine, emerge anche nel curioso nome che Murakami ha scelto per la sua factory, che ha chiamato Kaikai Kiki. “Ho deciso di utilizzare una parola giapponese così assonante perché volevo far capire che si trattava di una cultura diversa”. Kaikai Kiki è una vera e propria “industria dell’arte” dove lavorano circa un centinaio di artisti. È qui che viene creato tutto quanto ruota attorno al mondo di Murakami e al suo “brand”, dalle opere d’arte alle spillette. “Nella factory produciamo di tutto” spiega Murakami “da opere costose a oggetti di merchandising: è in questo modo che l’arte trova il modo di arrivare a tutti e tutti ne possono godere”. Nella factory, che non va mai in vacanza, la produzione va avanti anche quando Murakami non c’è. In questi giorni in cui il Maestro si trova all’estero sono i suoi assistenti, che lui dirige e supervisiona anche da lontano, a lavorare alle opere.
Figlio di un tassista e di una casalinga originari di Kokura, la poetica di Murakami è indissolubilmente legata alla storia di questa città, diventata famosa suo malgrado. Kokura, situata nel sud Giappone, in Kitakyūshū, fu prima l’obiettivo di riserva scelto per il lancio della bomba atomica su Hiroshima, nel caso in cui vi fosse stata nebbia. E fu sempre la nebbia a salvare Kokura il 9 agosto quando l’obiettivo venne deviato su Nagasaki proprio per motivi di visibilità. Il tema della bomba atomica, ovvero della catastrofe, non abbandona mai Murakami, che sembra trovare una via d’uscita a un mondo di cui si fatica a trovare il senso soltanto nei soggetti fantastici del mondo otaku. Per Murakami è proprio questa subcultura a lungo snobbata l’unica chiave di lettura possibile della realtà contemporanea giapponese, oltre alla quale è molto difficile immaginare un futuro. “Secondo me il passo successivo del Giappone sarà il collasso economico, come è successo in Grecia. Sto parlando seriamente. I giapponesi non percepiscono ancora davvero la crisi. Una volta che il paese sarà crollato ci sarà di sicuro una grande confusione e da questa nascerà qualcosa di nuovo. Oppure ci sarà lo sprofondamento definitivo. È lecito chiedersi quale sarà il passaggio che porterà al passo successivo, ma la mia visione non è positiva”. Le margherite col sorriso standard di una emoticon sono kawaii (carini e delicati) solo all’apparenza: “È ovvio che talvolta un mio disegno particolarmente colorato, se visto con gli occhi di un bambino, possa apparire allegro. Allo stesso tempo io cerco di usare però anche immagini che diano un brutto presentimento. Il mio messaggio è molto diretto, molto sincero: ci stiamo dirigendo verso un mondo che sarà sempre più instabile e che potrebbe risolversi in qualcosa di negativo. E dobbiamo prepararci”.