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Japanese Heels – Murakami Haruki, ovvero l’eroe perdente postmoderno

11 Ottobre 2015
NipPop Staff

 

Pensieri, parole, visioni, fragili come i più sottili e slanciati dei tacchi a spillo. Una rubrica firmata M.me Red.

Che M.me Red non sia una fan del global-popolare Murakami è cosa nota. Ma anche la vostra blogger ha un cuore, e in questo periodo dell’anno non può fare a meno di provare un moto di tenerezza velato di indulgenza per lo scrittore che ancora una volta si conferma la perfetta reincarnazione del mito dell’eroe perdente, in chiave pop e/o postmoderna (per chi crede che il postmoderno esista ovviamente…ma questa è un’altra storia, o un’altra puntata!).

Ripercorriamo i suoi inizi…

Starting from the early 1980s, a new generation of Japanese writers has emerged that capture the electric, eclectic spirit of contemporary life in Japan’s mega-cities. Choosing to speak through the medium of popular magazines – rather than literary journals, as did the preceding generations –these young authors have shunned such traditional labels as junbungaku, pure literature, opting instead for the Anglicism fuikkushon, fiction. (Alfred Birnbaum, Monkey Brain Sushi, 1991).

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Murakami Haruki, classe 1949, forse lo scrittore giapponese contemporaneo più noto nel mondo, esordisce relativamente tardi, nel 1978:

But then suddenly one day in April 1978, I felt like writing a novel. I remember the day clearly. I was at a baseball game that afternoon, in the outfield stands, drinking beer. The stadium was a ten-minute walk from my apartment. My favourite team was the Yakult Swallows. They were playing the Hiroshima Carps. The Swallows’ first batter in the bottom of the first inning was an American, Dave Hilton… I’m pretty sure he was the leading hitter that year. Anyhow, he sent the first ball pitched to him that day into left field for a double. And that’s when the idea struck me: I could write a novel.

Così lo stesso Murakami racconta la genesi del suo primo romanzo, Kaze no uta o kike, che gli valse, nel 1979, il premio Gunzō per scrittori emergenti. Le opere successive confermano il suo talento, ma è solo con la pubblicazione, nel 1987, di Noruwei no mori che ha inizio quello che la critica ha battezzato il “fenomeno Murakami”, Murakami genshō.  Questo non solo perché il libro diventa ben presto un million seller, ma perché assurge a simbolo della nuova letteratura giapponese, che consapevolmente si distanzia in modo critico dalla tradizione precedente.  

 

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Il romanzo, narrato in prima persona dal protagonista Watanabe Tōru, si snoda come un lungo flashback che si avvia sulle note di una famosa canzone dei Beatles, Norwegian Wood. Su un volo diretto ad Amburgo, Watanabe torna con la memoria a un episodio che, diciassette anni prima, ha segnato la sua giovinezza: l'incontro con Naoko, fidanzata di Kizuki, il suo migliore amico, morto suicida. E poi gli anni dell'università, gli amori impossibili, difficili; la vita in collegio, l'amicizia; la morte. Siamo alla fine degli anni '60, ma Watanabe rimane sostanzialmente estraneo ai fermenti  rivoluzionari che animano la protesta studentesca: il suo percorso è personale, un doloroso processo di crescita che culminerà nella consapevolezza che la morte è una parte intrinseca della vita, e come tale va accettata.

Finora ho sempre pensato che avrei voluto oscillare in eterno fra i diciassette e i diciott’anni, ma adesso non lo penso più. […] Ho vent'anni ormai. E devo pagare il prezzo per continuare a vivere. (Murakami  Haruki , Norwegian Wood. Tokyo Blues, Einaudi, 2006, p. 280)

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Paradossalmente, proprio l’incredibile popolarità è alla radice del pregiudizio della critica nei confronti dello scrittore, al quale viene negato lo status di autore di junbungaku (letteratura pura) in quanto troppo commerciale e disimpegnato per essere considerato un “intellettuale”. Miyoshi Masao, in particolare, lamenta la progressiva scomparsa, nella generazione di scrittori cui appartiene anche Murakami, degli ideali che avevano animato la modernità e dell’impegno sociale. Una decadenza che si accompagna al dilagare di un consumismo onnivoro, che travolge anche il mondo della cultura, trasformando il testo in un bene di consumo, e di bassa qualità. A questi nuovi autori emergenti, Miyoshi, contrappone la prosa densa, provocatoria, politicamente scorretta di Ōe Kenzaburō, scrittore e intellettuale che a sua volta ha avuto parole taglienti per la nuova letteratura:

[…]Haruki Murakami, a writer born after the war, is said to be attracting new readers to junbungaku. It is clear, however, that Murakami’s target lies outside the sphere of  junbungaku, and that is exactly where he is trying to establish his place. It is generally believed that there is nothing that directly links Murakami with postwar literature of the 1946-70 period. (As a hasty aside here, I believe that any future resuscitation of junbungaku will be possible only if ways are found to fill in the wide gap that exists between Murakami and pre-1970 postwar literature. (Ōe Kenzaburō, Japan’s Dual Identity: A Writer’s Dilemma, 1988).

 

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La critica ha insistito soprattutto sull’aspetto commerciale del successo di autori come Murakami o Yoshimoto Banana, ma di fatto è proprio la loro apparente apatia politico-sociale a farne gli interpreti della crisi identitaria che segna il Giappone contemporaneo, riluttante ad affrontare il proprio passato più recente e  le proprie responsabilità storiche. Questi scrittori appartengono alla generazione cresciuta negli anni del boom industriale e della cosiddetta baburu economi (l’economia della bolla), in un benessere che vede il consumismo colmare il vuoto di valori conseguente al crollo dell’ideologia nazionalista e del sistema che aveva guidato il paese negli anni della guerra. A fronte di queste profonde trasformazioni sociali, propongono un diverso punto di vista sul ruolo dell’intellettuale, sul rapporto fra letteratura alta e letteratura di massa, sull’egemonia culturale dell’Occidente.

Film, titoli di canzoni, romanzi famosi: attraverso l’utilizzo ironico e strumentale della cultura pop americana che ha formato e plasmato l’immaginario della sua generazione, Murakami analizza e decostruisce la propria identità attraverso il confronto con l’Altro. Il suo successo quindi scaturisce in primis dalla proposta di modelli culturali nei quali il pubblico dei lettori può facilmente riconoscersi. Il meccanismo pubblicitario innescato dalla trasformazione del libro in bene di consumo non fa che amplificarlo. I suoi romanzi giocano con il già detto, l’allusione, la citazioni-omaggio, e reagiscono all’inafferrabilità del reale concentrandosi sulla sfera interiore e individuale. Anche il tempo della narrazione si frammenta, e gli avvenimenti si susseguono sulla pagina, svincolati da qualunque logica o linearità, evocati dal ricordo o dall’irruzione nel quotidiano di mondi altri.

Noruwei no mori in questa prospettiva può essere letto come una ripresa del Bildungsroman, il romanzo di formazione, nella misura in cui racconta un percorso di maturazione, ma i modelli che, pagina dopo pagina, lo stesso Murakami cita non sono quelli classici. Tuttavia, Il giovane Holden di J. D. Salinger o Il laureato di Mike Nichols sono riferimenti che afferiscono a un orizzonte culturale comune all’autore e al suo pubblico. E non a caso il romanzo, che la critica aveva liquidato frettolosamente come banale e convenzionale, ebbe un successo strepitoso, arrivando a vendere nell’arco di poche settimane quasi quattro milioni di copie e trasformando Murakami in uno scrittore di culto.

(da Roberta Novielli – Paola Scrolavezza, Lo schermo scritto. Letteratura e cinema in Giappone, Libreria Editrice Cafoscarina, Venezia 2012)

 

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