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La luce dei sogni. Hara Tamiki, un ponte di desideri, di speranza e salvezza

6 Agosto 2015
Tania Sarti

Alle 8.15 del 6 agosto 1945, il bombardiere B-29 “Enola Gay” dell’Aeronautica degli Stati Uniti sganciò su Hiroshima la prima bomba atomica della storia. Il colonnello Paul Tibbets e i membri dell'equipaggio videro, diverse miglia sotto di loro, un punto violaceo che si espandeva in una palla di fuoco. Una colonna bianca di fumo emerse dalle nuvole, risalendo velocemente a 10.000 piedi, dove prese le forme di un immenso fungo, che continuò a salire fino a quasi 50.000 piedi.

“Mio Dio, che cosa abbiamo fatto?”, fu il commento degli americani che accompagnò i primi effetti devastanti dell’onda d’urto. Fu chiaro sin da subito che un avvenimento come quello, ripetuto a Nagasaki tre giorni dopo, non sarebbe stato facile da cancellare. Pesanti furono le censure operate dal governo statunitense per minimizzare l’accaduto, sottoponendo tutti i mezzi di informazione al controllo del CCD (Civil Censorship Detachment), in modo da contenere i dati e i racconti di quegli autori che, testimoni del disastro che aveva distrutto il proprio Paese, si sentivano in dovere di dare voce e forma a quell’orribile capitolo di storia umana.

Impallidisco. Sono già arrivati gli aerei. Si vedono. Dalle nuvole proviene il rumore indistinto di un’esplosione. […]

Grido. Davanti ai miei occhi, una luce brilla nel cielo di Hiroshima. Lenta come se fosse un sogno, una luce si propaga, piano piano. D’un tratto la velocità aumenta. Ma poi di nuovo, come a frazionare ogni singolo attimo, la luce avanza lenta, esitante. E all’improvviso invade il suolo. In un momento il suolo appare completamente trasformato. La città è trasformata. Adesso, però, le case sono crollate piano piano, una dopo l’altra alla velocità dei sogni.

Così Hara Tamiki 原 民喜 (1905-1951) ricorda quegli attimi vissuti sulla propria pelle. Originario di Hiroshima, ha posto il disastro atomico alla base del suo discorso letterario e della sua stessa vita. Considerato da Ōe Kenzaburo il più bravo e il più sensibile tra tutti gli scrittori giapponesi contemporanei nel descrivere l’esperienza dell’atomica, fu insignito del primo premio Minakami Takitarō per la sua opera più nota, Fiori d’estate (Natsu no hana), terminata nel 1946 ma pubblicata solo l’anno successivo per via della censura. L’ultima delle sue opere, Il paese dei desideri, (Shingan no kuni, 1951), considerata il testamento dell’autore che si tolse la vita nello stesso anno, è una raccolta di cinque racconti: Requiem (1949), Labbra di fuoco (1949), Sulle rive di una morte meravigliosa (1950), Il paese dei desideri (1951), Verde infinito (1951).

Al centro di tutti i racconti gli stati d’animo dei protagonisti, proiezioni dello stesso autore, raccontati attraverso frammenti della loro memoria e il desiderio di riempire gli spazi lasciati dal vuoto di una realtà lacerata, di una Hiroshima irriconoscibile, sepolta sotto le macerie eppure così viva nei ricordi di una quotidianità che sembra non poter essere più ripristinata. Dalle visioni oniriche del requiem intonato dalle voci dei morti, che attraversano le stelle implorando dai sopravvissuti la salvezza, fino alla realtà cruda della guerra, con l’immagine stampata negli occhi delle “labbra di fuoco” di una ragazzina avvolta dalle fiamme, le stesse che bruciano Hiroshima. La dimensione del ricordo che riporta l’autore alla morte della moglie amatissima, Sadae, e quella del suo sogno ricorrente circa la caduta di una stella dal cielo, presagio funesto di ciò che accadde l’anno successivo alla sua morte.

Due mondi, quello onirico e quello reale, collegano come un ponte, lo stesso ponte che quel giorno separava i sopravvissuti dai morti, un percorso nella profondità più fragile di un uomo che ha perso tutto e cerca disperatamente di trovare un senso a quella insensata devastazione. Come è possibile che il mondo e l’umanità continuino a esistere? Come può un sopravvissuto, un hibakusha, continuare a vivere se la vita, per i superstiti, è una condanna a cercare i cari dispersi, gli amici, se stessi, in una città ormai inesistente e desolante?

Nonostante la frammentarietà della narrazione, i racconti si susseguono l’uno all’altro, come a sottintendere un unico grande disegno, il cui senso forse, aveva ridato un significato alla stessa vita di Tamiki: il dolore provato per la perdita della moglie confluisce nel dolore collettivo delle vittime dell’atomica, e contribuisce a sua volta a creare una memoria collettiva che si fonda sulla condivisione dei ricordi. Per non dimenticare.

Non devi vivere per te stesso. Devi vivere solo per il lamento dei morti. Saprò far rivivere il loro lamento dentro di me? […]

Resisti a te stesso, resisti a tutto ciò che è rimasto. Resisti a tutto ciò che ti vuole fare a pezzi, a ciò che ti da i brividi, alle urla di morte. […]Devo resistere fino all’ultimo, al delirio che minaccia di farmi a pezzi, alla solitudine e al dolore che mi tormentano, a quel senso di devastazione così simile alla morte…E poi continuerò  a resistere, quell’immagine eterna sprigionata da un istante di luce.

Hara Tamiki ha rappresentato scenari spaventosi e atroci sovrapponendoli a immagini ricche d’amore e vitalità, condividendo i suoi sogni e i suoi incubi su un futuro senza certezze, ma non del tutto privo di speranze. Ha poi lasciato quella terra minacciata da masse di fuoco togliendosi la vita alla luce di una possibile nuova bomba atomica durante la guerra in Corea. Rischiando di impazzire e di cedere alla disperazione, ha combattuto la sua battaglia nella ferma convinzione di dover documentare quello che aveva vissuto, per ritrovare se stesso e per permettere a chi era sopravvissuto di riflettere sul proprio futuro, incoraggiando a lottare contro la follia e la disperazione, contro un futuro oscuro che gli uomini stessi avevano reso possibile.

Questo mondo che non è andato in frantumi, è pieno di voglia di vivere. […] Io sono un uomo che non ha più un posto verso cui fare ritorno, sono un uomo il cui mondo è andato in frantumi. Ma posso almeno pregare per loro. Prego. «Perchè tutte quelle morti li facciano crescere. Perchè si preservi il loro amore. Perchè non restino soli. Perchè possa arrivare il giorno in cui potranno tornare a ridere insieme. Perchè finiscano tutte le guerre.» Tutti attraversano il mio campo visivo. Tutti mi attraversano. A una velocità infinita, come la passione, come una preghiera, in silenzio, semplicemente, verso lo sconfinato altrove, per riecheggiare, per unirsi…

 

Hara Tamiki, Il paese dei desideri, traduzione e cura di Gala M. Follaco, Atmosphere Libri, Roma 2015


 

 

 

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